Maurilio Barozzi
2001. Il Giro a Santa Barbara
03 giugno 2001
Santa Barbara, un paio di chilometri sopra Ronzo Chienis, per chi la conosce, sono una cinquantina di villette, il profumo dell'erba, verde da far invidia, tagliata con la falce e raccolta in covoni coi rastrelli, le elitre dei grilli o il silenzio. C'era solo un bar; ora non c'è più nemmeno quello.
Beh, ieri era irriconoscibile. Invasa già al mattino da diverse migliaia di persone: ciclisti con completi attillati dai colori sgargianti; camperisti attrezzati con seggiole e taniche di acqua e vino; motociclisti; uomini, donne, bimbi al seguito, ragazzini, vecchi. Poi chioschi per piadine calde e panini, e televisioni in strada, uno vestito da vikingo, uno da mescalero con tanto di sombrero e baffi a manubrio ed anche el Diablo (quello che poi vedi anche al Tour e alla Vuelta. Ma, tra una gara e l'altra, lavorerà?).
Sull'asfalto nomi scritti o bandiere disegnate, mentre ai lati garrivano variopinte: dell'Italia, del Belgio, della Spagna. Radio accese, musica, striscioni e poster. Migliaia di copie della Gazzetta, che in questi giorni è la prima lettura del mattino, forse anche in Vaticano.
Tanta gente, lassù a Santa Barbara, non s'è mai vista. Ieri, invece, mezzo mondo era convenuto su quella stretta stradina che si arrampica con una traiettoria improbabile (ogni volta che la fai non puoi non chiederti chi diavolo possa averla disegnata: quelle due curve, una attaccata all'altra, che anche in macchina ti tocca mettere prima). E tutti lì a fare una cosa: aspettare. Oddio, ognuno a modo suo, ma per tutti la calamita è la stessa: il Giro d'Italia. Dello sport o del ciclismo si può anche infischiarsene, ma il Giro è qualcosa di diverso, qualche cosa che è sport, cultura, costume, tutto assieme. E dunque non si può mancare, per dire c'era su anche mia zia che di bici...
Sembra strano, ma il bello è proprio aspettare. Poi loro, i ciclisti, arrivano, passano (schizzano su come le moto anche se la strada è in piedi, sicché non è che puoi guardarli molto) e allora tutto è finito. Basta. Neanche il tempo che passi la macchina con la scritta fine corsa: tutti se ne stanno già andando. Finis.
Quando c'è il Giro, i telecronisti - a farci caso - dicono sempre che è «una grande festa». É vero! Proprio perché sei lì ore e ore con gente di ogni parte d'Italia (e del mondo): chiacchieri, bevi, mangi, ridi, commenti. Così da Genova sono arrivati a Santa Barbara quattro giovanottoni, ubriachi già da un paio di giorni (provenivano dal Pordoi, per la tappa di venerdì), che offrono grappa, cantano, fanno esercizi ginnici; da Bergamo i tifosi di Savoldelli, incollati alla radio per sapere se il loro beniamino stesse attaccando. Poi, una volta capito che l'andatura della prima parte della tappa, sul Bondone e nella val dei Laghi, era poco più che da cicloturistica, spengono e alimentano il mito: «Savoldelli? Si prepara su una salita che a confronto questa sembra pianura». Mah.
C'è un gruppo da Milano per tifare Frigo (scrivono per terra: il giro lo vince Frigo perché è il più fresco). E ci sono i cicloamatori (privilegiati, nella strada chiusa al traffico). Provano la gamba sul percorso dei campioni, a caccia di gloria: transitano con completini aderenti e lucidi tra migliaia di persone che li guardano, tanto che - lo sanno - vale la pena di dare tutto, si sa mai che qualcuno noti il polpaccio ben tornito. Ma più facilmente gli dicono la solita «dài che sei solo».
Anche le donne, vanno su per la Santa Barbara in bici. E trovano sempre qualcuno disposto a posare una mano sul sellino (?) e spingerle per qualche decina di metri.
Quando si avvicina l'ora x, l'ora in cui i ciclisti passeranno, iniziano a diffondersi nei vari crocchi sulla strada i consueti ragionamenti tecnici. Tutti a dire di moltipliche, denti del cambio, rapporti usati dai campioni e da se stessi.
Poi la carovana di sponsor, di giornalisti, di moto della polizia, di venditori ambulanti, di auto dell'organizzazione (solo quelle saranno una trentina) s'infittisce. Ecco anche gli elicotteri della Rai: ci siamo. Le televisioni portatili irradiano le immagini dei primi ciclisti che imboccano la strada per la val di Gresta. Scattano i cronometri: sapere quanto ci mettono i campioni a fare quella salita sarà importante per molti, già da oggi, che si confronteranno a distanza con i loro idoli (per la cronaca, registro un 31 minuti scarsi dal bivio di Loppio fino a Santa Barbara di Simoni, poco più di mia madre in auto).
La folla sulla strada, nonostante la giornata grigia, sembra un colorato mare che si aprirà all'arrivo dei ciclisti, come il mar Rosso davanti a Mosè.
Cinque p.m. Eccoli.
Ohè, io di ciclismo ne vedo a iosa, ma ogni volta che vado al Giro, sulla strada, è uguale: in gruppo non so riconoscere quasi nessuno, con i volti contraffatti, tutto occhi e denti, precocemente invecchiati (lì provi ogni sentimento, tranne che l'invidia, per quei campioni). I primi volano, non vogliono spinte e puoi solo incitarli. E per Simoni il Santa Barbara è un'apoteosi (Vai, Gil. Vai. Vaiiii).
Ma gli ultimi... Quelli le spinte te le chiedono proprio. Così dal gruppetto dei ritardatari, tutti velocisti, sbuca fuori, prendendo una ventina di metri di vantaggio, Cipollini. É furbo, lui. É andato piano tutta la tappa ma ora, sulla salita dura, dove i tifosi si assiepano a migliaia, fanno le foto e spingono volentieri, lui va davanti; si fa riconoscere; fotografare; e soprattutto aiutare. Anch'io lo spingo su, per una ventina di metri. Cipollini sembra sorridere: sa che appena smetto io, spingerà qualcun altro. Così, penso, una celia gliela dico: «Mario, ai tempi d'oro su questa salita avresti attaccato». Mi guarda, stralunato. Dio mio, avrà capito che stavo scherzando?
maurilio barozzi
in l’Adige 03 giugno 2001
L’ARTICOLO
Pubblicato sul quotidiano l’Adige di domenica 3 giugno 2001