Maurilio Barozzi
Teresa, deportata in Boemia - maurilio barozzi
domenica 24 ottobre 1999
Mori (TN) – Teresa Armani ha 105 anni. É un libro di storia vivente. Prezioso. Testimone di un secolo drammatico.
Con un amico insegnante (Gianpaolo Armani, nipote di Teresa), qualche tempo fa abbiamo voluto raccogliere i suoi ricordi. Ne abbiamo fatto una videocassetta della quale qui compare solo una parte della testimonianza. Come spesso accade per le persone anziane, il ricordo si rivela molto dettagliato e ricco nel periodo dell’infanzia e della giovinezza, mentre si fa leggermente più opaco con il prosieguo degli anni. Per questo motivo abbiamo scelto di riportare solamente la parte relativa alla Prima guerra mondiale e una parte del periodo fascista. Già a partire dalla seconda guerra mondiale (dove Teresa Armani perse un figlio, nella campagna di Russia) le immagini risultano offuscate, e pertanto abbiamo preferito offrirne soltanto la parte limpida.
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Il 28 giugno del 1914, Gavrilo Princip, uno studente serbo, assassina a Sarajevo l’arciduca Francesco Ferdinando (erede al trono dell’impero Austro-Ungarico). É la scintilla della prima guerra mondiale.
TERESA ARMANI - Ricordo che io stavo a Rovereto in servizio presso una famiglia in via Dante. Però ero sola perché i padroni se ne erano già andati via (a Bregenz) a causa della guerra. Un giorno, poco tempo dopo, vennero a prendermi i carabinieri - che allora si chiamavano gendarmi - e mi dissero: «Lei deve andarsene di qui, ché è di Pannone. Non di Rovereto». Mi accompagnarono fino a Loppio E lì ricordo con chiarezza che mi misi a piangere, volevo andare fino alla Val di Gresta ma i carabinieri mi dissero che ormai lassù non c’era più nessuno. Piangevo ma mentre aspettavo vidi passare il convoglio con i soldati. E lì c’era pure mamma e le mie sorelle e mio nonno di 90 anni. Questo mi consolò. Ci portarono a Villa Lagarina e ci misero in un appartamento, dove restammo due mesi. Ci davano cibo e la mamma faceva da mangiare assieme alle sorelle più anziane. Poi si sono stufati e ci hanno detto che «ghe magnem for tut» (gli mangiamo tutto). Per cui anche noi siamo dovuti partire.
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Il 26 aprile 1915 il governo italiano firmò a Londra un patto segreto con la Francia e l’Inghilterra, impegnandosi a entrare in guerra, dietro la promessa del Trentino, del Sud Tirolo, dell’Istria (esclusa Fiume) e della Dalmazia. Così il 24 maggio 1915 anche l’Italia entrò in guerra a fianco dell’Intesa. La popopolazione di alcuni paesi (Mori, Ala, Folgaria, Rovereto e alcune valli limitrofe — venutisi a trovare proprio sul fronte) venne fatta sgomberare e deportata nel Tirolo, in Austria e in Boemia. Molti non ebbero nemmeno il tempo o il pensiero di mettersi addosso un vestito decente e prendere quelle cose meno ingombranti e preziose come gli ori e documenti più importanti.
TERESA ARMANI - In quei giorni dovemmo lasciare la casa di Villa Lagarina e partire per la Boemia, per Thuanzel (cittadina 150 Km. a nord di Praga, che ora non c’è più, ndr). Il treno era strapieno eio stavo con la mamma, 4 sorelle e il nonno. C’erano tanti paesani, anche se quelli di Mori erano partiti 15 giorni prima. Ma quello che mi ricordo meglio era il prurito. Quei treni erano pieni di pidocchi. Il viaggio durò due giorni. Poi arrivammo a Thuanzel. Lì ci misero in una stanza per profughi messa a disposizione dal Comune che dividevamo con altre tre famiglie e stavamo schiacciati.
Di solito andavamo per legna, facevamo un po’ di pulizie in casa - ma poche. Fino che un giorno arrivò un signore che parlava anche un po’ di Italiano perchè aveva fatto il militare nel Trentino mi chiese se potevo accudire il suo bambino. Per cui io da quel giorno - praticamente per due anni - trascorsi le giornate con a casa dei miei padroni, facendo da balia al bambino e potendo prendere quello che volevo, bastava che dicessi che era per il bambino. La notte invece andavo a dormire a casa con le mie sorelle, mamma e il nonno. E portavo loro del pane duro che riuscivo a prendere in casa dei padroni. Io durante il giorno andavo in giro con il bambino a passeggio.
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Il 4 novembre 1918 finì la guerra e ci fu il ritorno in patria. In un Trentino distrutto dalla guerra. L’Italia ottenne, come sancito dal segreto Patto di Londra, le città di Trento e Trieste, ma anche regioni popolate da tedeschi (il Tirolo meridionale o Alto Adige), sloveni (la Venezia Giulia) e croati (la parte interna dell’Istria). La guerra aveva provocato una grave crisi che colpì in tutta l’Europa le industrie, il commercio si era ridotto e la povertà dilagava e perciò la gente non aveva il denaro necessario per acquistare i prodotti industriali.
TERESA ARMANI - Quando finì la guerra ci sloggiarono. E facemmo il viaggio di ritorno in condizioni pietose, due giorni senza mangiare fino a Rovereto, dormendo per terra: un Calvario. A Rovereto ci misero in una stanza e ci diedero da mangiare. Ma noi volevamo tornare a Pannone. E i carabinieri ci accompagnarono fino a Loppio. La mamma continuava a dire: ma cosa andiamo a fare a Pannone? Ma noi volevamo vedere il nostro paese anche se ci dicevano che non c’era su nessuno, che tutti erano andati via. Dicevamo: andiamo su che qualche cosa faremo. E infatti, arrivati su trovammo un contadino, il Toni Giuditta, che ci diede ospitalità.
Ma furono giorni tristi, da dimenticare: mangiare, dormire e delle volte anche cantare. Insomma: miserie. La mamma andava a Nago - dove erano rimasti e non erano scappati per la guerra - e ritornava con le borse piene di roba da mangiare. Io dopo un po’ ero stufa di stare là. E allora ricominciai ad andare a Rovereto, per cercare di andare a servizio in una famiglia. La trovai in via Dante, che si chiamava Zanotti. Ma ormai era amara anche stare sempre a servizio: erano ormai 14 anni che continuavo, compresi gli anni della guerra. Tornai a casa ma la mamma non voleva perchè non sapeva come mantenermi, non aveva schei per mangiare. Allora rimasi a Rovereto.
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La miseria spinse inoltre molti italiani ad emigrare in America (Stati Uniti, Brasile, Argentina) per cercare lavoro. Poi il ritorno, con la ripresa della vita quotidiana.
TERESA ARMANI - Leopoldo Armani, un moroso di gioventù, era andato in America e in Francia. Ma nel 1919 era tornato. Io all’inizio non volevo più saperne di uomini: avevo già avuto un bambino senza matrimonio. Ma quando tornò il Leopoldo decidemmo di sposarci, anche se io non volevo, all’inizio. Così andammo a stare alla Fucina di Pannone, in casa Armani.
Le nozze sono state proprio da ridere. Andammo a Riva a pranzo al ristorante. Ma alla fine l’Armani, mio marito, mi disse: «Va là Teresa: paga ti che no go pu schei» (Teresa, paga tu che non ho più una lira). Ho dovuto pagare il pranzo: per fortuna che mia mamma mi aveva dato dietro diversi soldi per sposarmi.
Poi siamo andati a casa, alla Fucina. Appena dentro la zia dell’Armani, Maria, ci disse: «Venite. Venite avanti, sposi», e ci mostrò la camera da letto e fece: «Questo è il letto dei sospiri; della gioia e dei dolori. Ma voi dovrete pregare». Era una donna molto di chiesa.
La sera ci trovammo a tavola per mangiare. Eravamo in venti e tutti raccontavano la loro. Ma io non raccontavo, io piangevo. Piangevo perché ero in una famiglia nuova e volevo mia mamma. E tutti mi dicevano: «Mangia Teresina, mangia». Volevo ritornare a casa mia.
Poi ci fecero andare a dormire ma io non dormii: continuavo a piangere e la mattina zia Maria ci ha portato il caffè e mi ha consolato. Dopo colazione io volevo tornare a casa a pranzo.... Eh ho passato una vita piuttosto brutta.... Poi, dopo un anno ho avuto un altro figlio.
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La Chiesa ebbe un posto importante nella realtà rurale: era un punto fermo attorno al quale ruotava la vita del paese. Esercitò notevoli influenze sulla cultura, la morale e la società. Dagli atti visitali del periodo si deduce una forte assiduità alle pratiche religiose, una stretta osservanza agli antichi precetti. Molta importanza si dava alla frequenza ai sacramenti, sino ad arrivare a contare, da parte del curato, quante persone facevano la comunione alla domenica.
TERESA ARMANI - La chiesa era distante da casa. Ma ci andavo: «Bisognava andare a funzione». E poi gli Armani erano di chiesa. Leopoldo no, lui era stato in Francia e non voleva saperne di chiesa. E allora anch’io stavo con lui, e ci andavo di meno della zia Maria.
Io preferivo invece andare a ballare al Cram, appena finita la guerra. Ma bisognava andarci di nascosto dal padrone, perché non volevano che si andasse a ballare: se venivano a saperlo ci mandavano via. Noi la domenica dovevamo andare a pregare. Invece io e altre tre o quattro serve di Rovereto andavamo o al Cram o a Lizzana, dal Dapor - ci sarà ben ancora, il Dapor. E dentro i compagni eravamo capaci di trovarceli, eccome. Anzi: bisognava tenere gli occhi aperti.
In generale nessuno voleva che andassi a ballare: avevano paura che succedesse qualcosa (e avevano anche ragione).
Il prete non mi ha mai rimproverata. Del resto io non glielo dicevo che andavo a ballare. «No era miga si ‘ndrio da nar a dirghelo» (Non ero mica così ingenua da andare a dirlo al prete).
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Verso il 1920 iniziò una sorta di compenetrazione tra gli ambienti reazionari agricoli e i fascisti.
L’alta borghesia utilizzò un movimento di recente formazione, quello fondato da Benito Mussolini, per eliminare le organizzazioni socialiste, cattoliche, liberali e tutti coloro che animavano scioperi e proteste. Questo fenomeno prese il nome di "squadrismo", per il fatto che squadre fasciste ben armate e contraddistinte da camicie nere, cercavano di ridurre al silenzio qualsiasi forma di opposizione. Con qualsiasi mezzo: distruggevano le sedi dei giornali e dei sindacati, e picchiavano, a volte fino ad uccidere, i dirigenti. E in tutto questo anche le autorità pare fossero consenzienti. Il 28 maggio 1922 diversi squadristi armati si radunarono alle porte della capitale con l’intenzione di far cadere il governo Facta. Il re Vittorio Emanuele III diede a Mussolini l’incarico di formare un nuovo governo cui parteciparono anche esponenti liberali e popolari. Da questo momento si entra ufficialmente nel cosiddetto Ventennio fascista. Nel 1936, in piena epoca fascista, il figlio di Teresa Armani, Giuseppe, cantò nella piazza di Mori la canzone "Bandiera Rossa". Fu arrestato e confinato a L’Aquila fino al 1941.
TERESA ARMANI - Ero preoccupata: faceva già buio e mio figlio Giuseppe non era ancora arrivato a casa. I vicini mi dissero «Teresa, non aspettarlo oggi tuo figlio Bepi. Perchè non viene a casa. Lo hanno messo in prigione a Rovereto». «O Madonna. Perché lo hanno messo in prigione», dissi. «Perché ha cantato Bandiera rossa in piazza di Mori». Allora l’Armani (mio marito) è andato giù a Mori di notte a cercarlo. Ma non hanno trovato né lui, né i suoi amici (altri coetanei). Il giorno dopo sono andati a Rovereto a chiedere che li rilasciassero. «Hanno cantato perché erano giovani, un po’ fuori» (e con l’indice si picchietta la fronte). Li vedemmo soltanto otto giorni dopo, affamati come i ladri. E’ stata una brutta esperienza. E una vita dura.
Maurilio Barozzi
l’Adige, 24 ottobre 1999
L’ARTICOLO
Pubblicato sul quotidiano L’Adige del 24 ottobre 1999 con il titolo “Io Teresa Armani, deportata in Boemia, vi racconto la vita di inizio secolo”
Vista della Valle di Gresta, dove abitava Teresa Armani