Maurilio Barozzi
Libri, specchio della città
mercoledì 24 ottobre 2001
Valter Leoni ha quarantesette anni e da quasi trenta lavora alla Biblioteca civica di Rovereto. Per capirsi, è una persona che tutti hanno conosciuto o visto all’opera, in città. Infatti la Biblioteca, a Rovereto, è un luogo assiduamente frequentato da giovani, meno giovani, anziani e studiosi: da tutti. «Oggi è un luogo aperto, di massima libertà in cui uno arriva, si siede, legge il giornale, prende a prestito un libro, chiede un’informazione: insomma fa un po’ quello che ha voglia di fare senza dover rendere conto a nessuno. Ma una volta, fino ad una trentina di anni fa, in pratica fino a quando non fu costruita la sala di lettura, era tutto diverso» dice Leoni.
Valter Leoni, come era, una volta, la Biblioteca di Rovereto?
Fino al 1970, la ricordo da ragazzino, c’era una stanza in fondo ad un lungo corridoio con un tavolo, lo schedario, la Treccani ed una stufa a carbone. Si chiedeva al Bibliotecario il libro di cui si aveva bisogno, a seconda della ricerco o l’uso. A volte non si conosceva il titolo e si chiedeva grosso modo l’argomento. Il Bibliotecario, Pio Chiusole, assumeva una posa riflessiva. Poi s’illuminava e diceva sì, forse ho qualcosa che può fare al caso. E spariva sulle scale.
Così veniva quassù, a cercare in mezzo a questi splendidi tomi di ogni epoca...
Appunto. Poco dopo ritornava magicamente con un libro in mano. “Prova a dare un’occhiata a questo, se può andare”, diceva.
Insomma, tutto un altro ambiente. Oggi non si potrebbe nemmeno immaginare una trafila del genere, con cataloghi bibliografici elettronici per autore, titolo e argomento.
Sì, anche se le sale di pubblica lettura che oggi conosciamo sono figlie del lavoro di quello stesso bibliotecario che abbiamo ricordato. È Pio Chiusole che l’ha sognata assieme ad amministratori illuminati ma poi l’ha voluta e conquistata così come è oggi per noi, lavorando duramente dall’alba fino oltre il tramonto, 365 giorni all’anno. Ora è un buon segno che la gente possa entrare e fare come vuole. Significa che si sente a casa propria, che la Biblioteca è ormai diventata un luogo abituale per i roveretani: è diventata un dato di fatto, una cosa ovvia come il pronto soccorso o l’illuminazione pubblica. Pensi che la Biblioteca ha acquistato i primi volumi in modo consistente solo negli anni ‘70. Oggi si comperano libri per 250 milioni l’anno anche se le donazioni sono ancora numerose. Precedentemente la biblioteca si è formata tutta con lasciti di cittadini da Tartarotti nel 1764 in poi: grande amore civico, meraviglioso patrimonio ma non poteva essere una raccolta di libri contemporanei, vivi, attuali. Comunque, a giudicare da tutti questi volumi antichi, erano molti i filantropi. Altroché. Era una sensibilità particolare, nata dalla cultura di cui erano imbevuti gli intellettuali roveretani dell’800 e di inizio ‘900. Avevano il senso pratico di chi vuole costruirsi le cose da sé: vale per la Biblioteca ma credo anche per il Museo civico; erano lontani i centri di studio, le università.
Che tipo di cultura era?
Da bibliotecario dovrei mandarti a intervistare Quinto Antonelli o Michelangelo Spagnolli, ma in sintesi: nel 1855 parte la scuola reale elisabettina, da intendersi scuola delle “res”, degli affari e non scuola regia. Era rivolta alla modernità, alla scienza, collegata ad una realtà economica “industriale”, senza latino e con lo sbocco o nei lavori o nei politecnici di Vienna, Monaco, Milano: da questa scuola escono Depero, Baldessari, Marini e Tiella. Forse una scuola più laica, senza il filtro che i preti-professori esercitavano sulle altre. Comunque con il passaggio all’Italia, l’unico accesso all’Università torna il liceo classico, scuola d’élite della riforma Gentile.
Era così nefasta l’influenza dei preti?
Vuoi farmi lapidare? Non potrei parlarne male neanche volendo se pensi che da metà ‘700 a tutto l’800 i bibliotecari, sette, sono stati tutti sacerdoti e che dopo la I guerra mondiale la biblioteca fu rimessa in piedi dall’opera infaticabile e pressoché volontaristica di don Rossaro. È solo certo che l’influenza culturale ecclesiastica fosse grande.
Però di solito i libri sono un tramite per smarcarsi dalle influenze culturali.
È vero. Quando la stampa nasce nel 1450 è una vera rivoluzione. Subito il potere politico cerca di tenere sotto controllo i tipografi. La comunicazione, fino ad allora, era soprattutto fisico-acustica, da bocca a orecchio, da uomo a uomo: è una rivoluzione il passaggio muto delle idee attraverso le pagine di un testo in 1000 copie che si diffonde come le spore di una malattia contagiosa. Le dediche ai potenti fatte dagli autori o dagli stampatori sui loro libri sono il segno dei rapporti col potere.
Rimarchi il ruolo dello stampatore, più ancora dell’autore.
Certo, lo stampatore quasi sempre era un intellettuale che verificava tutto, poteva darsi che per fare uscire un testo classico dovesse far cercare i codici manoscritti disponibili, confrontarli fra loro, stabilire nelle parti discordanti quale fosse il testo più probabilmente esatto. Ma anche controllava lettera per lettera mentre queste venivano trascritte. Allora ogni lettera di un libro era dipinta come fosse un quadro; chi lo scriveva fisicamente magari neanche sapeva scrivere, dipingeva le lettere una per una, senza rendersi conto di quanto faceva.
Allora grosso modo lo stampatore faceva già tutto ciò che oggi fa una casa editrice: dall’editing del testo alla sua divulgazione?
Non dimenticare la stampa. Già nel ‘500 si iniziarono a stampare migliaia di copie, un vero salto di qualità rispetto a prima. Da subito la stampa è remunerativa sopra le 300 copie ma in pochi anni raggiunge le 500-1000 copie: dopo 50 anni di vita della stampa si considera che circolino in Europa 20 milioni di esemplari per 35.000 titoli. Per il resto, il libro circola come le altre merci: per secoli i libri vengono trasportati sfascicolati, la carta stampata avvolta all’interno di botti, come altre merci pesanti. Chi acquistava il libro dal libraio lo faceva poi rilegare a suo gusto.
Quanto valeva un libro di quel tempo?
Diciamo che un codice manoscritto e miniato di grande formato con un testo lungo come la Bibbia valeva a Bologna nel 1300 come una casa. Non un appartamento, una casa.
Diavolo!
Eh sì, d’altronde l’Università di Cambridge, all’inizio del 1400, possedeva non più di 130 codici. Dopo l’introduzione della stampa, diciamo che una Bibbia di formato grande valeva grosso modo un pezzo di campagna, poco meno di un ettaro. Diciamo 100 m. per 70.
Di cosa erano fatti?
Questa Bibbia del ‘300 per esempio è scritta su pergamena finissima, ricavata probabilmente da aborti di pecora.
Anche da qui si capisce che leggere era davvero un privilegio, al di là della scolarizzazione.
Non c’è dubbio è ancora un lusso, ma non per così pochi. Ma proprio all’ inizio del ‘500, vediamo la nascita della collana tascabile ed economica: le cosiddette Aldine, mai sentite nominare?
Ho letto qualcosa, recentemente. Sono i parva forma, una specie di paperbacks, no?
Esatto. Aldo Manuzio, all’inizio del ‘500, cominciò a pubblicare, uno al mese per cinque anni in 1000 copie, i classici greci, latini, italiani in un nuovo formato piccolo, tascabile, con un carattere tipografico bellissimo e leggibile.
E avevano successo?
Certo, tant’è vero che il problema delle “edizioni pirata” si presenta quasi subito e i tipografi editori si pongono sotto la protezione del potere politico per veder garantito il diritto di esclusiva dei loro testi su un determinato territorio.
Già allora si poneva il problema del diritto d’autore?
Sì, più applicato al tipografo editore in verità, ma ci sono esempi simpatici. Sai come ha dovuto fare Manzoni per cercare di non essere defraudato dalle edizioni da lui non autorizzate?
No.
Ha pubblicato i Promessi sposi a puntate, usciva a fascicoli con belle illustrazioni in incisione per rendere più difficile le edizioni pirata. Fu un’operazione ingegnosa, ma pare che ci rimise ugualmente un sacco di soldi, visto che fece tutto a sue spese, e parte della sua edizione rimase invenduta: la pirateria ci fu ugualmente.
Senti Valter, si parla sempre di differenze culturali tra Rovereto e Trento. Dal patrimonio di libri antichi della Biblioteca di Rovereto si potrebbe evincere qualche cosa, in questo senso?
Liliana de Venuto in un lavoro recente analizza questa differenza e contrappone una Rovereto con un ceto dominante di mercanti che divengono eventualmente “nobiltà di borsa” e che riescono ad attrarre nella loro orbita professioni “nobili” come avvocati, notai, medici e una Trento dove il potere era ben più stabilmente nelle mani di una nobiltà di origine feudale legata da un’ideologia nobiliare bloccata. La ricercatrice riesce a dare riscontri a questa situazione in base proprio alla presenza o assenza di determinati libri nei lasciti alle biblioteche. L’ambiente mercantile a Rovereto offriva viaggiatori e corrispondenti per affari in Italia e in Europa dei quali approfittare per cercare e procurare libri.
Tipo: ho sentito che tuo cognato va a Basilea per affari, potresti chiedere se mi procura il tal libro...
Così. I carteggi erano molto pratici, non si pensi che questi intellettuali si scrivessero solo per ragionare sui massimi sistemi. Si scrivevano anche per quello, ma spesso erano spinti da motivi molto concreti: intellettuali tedeschi scrivevano ad amici roveretani perché procurassero loro libri dall’Italia. Anche per questi rapporti, probabilmente, Rovereto è riuscita ritagliarsi questa etichetta di Atene del Trentino.
Maurilio Barozzi
L’Adige 24 ottobre 2001
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