Maurilio Barozzi
Il Giro a Trento
lunedì 28 maggio 2007
TRENTO-TRE CIME DI LAVAREDO – Nonostante questa sia la primavera più secca da decine e decine di anni, per il tappone dolomitico a Trento vien giù che dio la manda. Eppure sono qui a migliaia, in piazza Duomo, dove è prevista la firma dei corridori. Una Trento che sembra anche più bella di quel che è, stracolma di mantellini e ombrelli colorati.
Ci sono moltissimi bambini, certo. Ma anche diversi volti più o meno illustri. Dalla pioggia sbucano fuori Ivan Degasperi e Denis Bertolini, ciclisti professionisti della Diquigiovanni Selle Italia, squadra che però non è stata invitata al Giro. «Andrò a correre in Svizzera – dice Bertolini –. Anche se mi sarebbe piaciuto di più essere qui in bici, a gareggiare, oggi». Ci sono anche Zorzi, la Puzer, la Tamanini…
Ma il top – nessuno me ne voglia – arriva poco prima delle undici. Smette di piovere. Lo speaker dice: «Signori, con il giubbotto nero ecco arrivare il grande Eddy Merckx». E giù un applauso fragoroso. Beh, vedendo Merckx non si possono non ricordare tutte le sue vittorie. Era davvero un mito. E come tutti i miti attorno gli si sono costruite delle leggende che ne formano l'aura. Per dire. Si racconta che nel 1972, la sera alla vigilia della tappa Cosenza-Catanzaro, un gregario della formazione Ferretti diretta da Alfredo Martini uscì con Eddy Merckx e, per cercare di indebolirlo, gli lanciò una sfida alcolica: chi riusciva a bere più whisky. Il belga ne trangugiò una bottiglia intera mentre lo sfidante si fermò molto, molto prima. Il giorno dopo, durante la tappa, tutti quelli che erano al corrente dello scherzetto stavano aspettando il crollo di Merckx, che però non avvenne. Anzi: seguì in fuga proprio lo svedese Pettersson Gosta (uomo di punta Ferretti) e arrivò secondo, perdendo di un soffio la volata. Ma restando in maglia rosa e rifilando più di 4 minuti al terzo arrivato. Mah, chissà…
Si diceva della gente che riempie piazza Duomo. Rispetto a quasi tutti gli altri sport, il ciclismo non ha un luogo deputato come può essere uno stadio per il calcio, una piscina per il nuoto, una pista per l'atletica. Il suo luogo è la strada. Un luogo di tutti e per tutti. Sono i ciclisti che arrivano, non sei tu che vai da loro.
Ecco, i corridori.
Il primo è Perez Cuapio. Ci ha provato, in questo Giro a mettersi in luce, ma dopo un paio di tappe a inizio carriera - tra cui il Pordoi -, pare non riesca più a vincere. Allora si fa vedere. La gente lo conosce, forse più per i denti che voleva rifarsi per trovare la fidanzata (tutto puntualmente accaduto) che per i meriti sportivi. Comunque c'è: con unghie e denti non vuole finire nel capitolo meteore del ciclismo.
A proposito i quel capitolo. Ogni volta che se ne parla mi vengono in mente due o tre nomi.
Uno è Vasco Modena. Nel '56 era un bocia e aveva sconfitto il grande Coppi a cronometro. L'anno dopo corse il Giro d'Italia ma fu la sua ultima apparizione tra i professionisti.
Un altro è Claudio Michelotto. Nel '71, dopo che era stato dieci giorni in maglia rosa fu sconfitto da un beffardo verme solitario che lo ha seduto sul water un giorno intero e gli ha fatto perdere maglia, Giro e forse anche carriera.
Ma tra le meteore, la mia preferita in assoluto è Loretto Petrucci. Correva negli anni '50 e ha smesso a 26. Era fuori di testa. Vinse due Sanremo ('52 e '53) ma poi litigò con Coppi e il suo entourage. Lasciò la Bianchi ma non fu sufficiente. Il ciclismo è uno sport bello e faticoso, ma l'ambiente può farti attorno terra bruciata, se non stai al tuo posto. E così Favaro, uno della cordata Coppi, lo trattenne per la maglia proprio quando stava per involarsi e vincere la sua terza Sanremo. Che fosse un guascone lo dice lui stesso: racconta che mangiava in corsa un chilo e mezzo di carne essiccata e, verso il finale, si faceva passare una borraccia piena di champagne. «Moet & Chandon originale dalla Francia - dice - perché allora non si trovava di importazione. A me lo champagne mi faceva volare. Poi dicevo ai miei compagni di gruppo: allora, venite con me o devo arrivare al traguardo da solo?». Il migliore.
Torniamo ai corridori.
Stefano Garzelli, fresco di vittoria di tappa, sorride e firma autografi. Gli si chiede della polemica del giorno prima con Simoni che lo accusava di averlo raggiunto grazie alla scia di una moto. «Cazzate», taglia corto lui.
Ma il boato vero e proprio la piazza lo dedica naturalmente all'atleta di casa, il campione inossidabile e tenace: proprio Gilberto Simoni. Lui saluta alla chetichella i suoi cari che lo aspettano sotto il palco, poi la solita dichiarazione: «Oggi sarà durissima. Ma andò a tutta, come sempre».
Dietro di lui, più isolato visto che in pochi lo conoscono, il suo compagno di squadra Iban Mayo. Parla spagnolo ma si fa capire benissimo: «Oggi andiamo a tutta fino all'ultima salita. Poi facciamo partire Simoni». Si vedrà. Dice di montare sulla bici un ruotino duro: il 27. Spiega: «Non ho voluto montare il 29, così non lo uso».
Viceversa un Eddy Mazzoleni in grande forma confessa di aver messo anche il 29, «ma non ne avrò bisogno, spingerò rapporti più duri».
Poi si parte, da una via Belenzani davvero stracolma. Se non fosse un trito luogo comune scriverei che dove passa il Giro è davvero una festa. Ma non voglio indulgere in ruffianate. Dunque fate finta che non lo abbia scritto.
Salendo verso le Tre cime di Lavaredo ascolto la radio. I collegamenti dal Giro. C'è una fuga. Il cronista dice i nomi: Riccò, Piepoli, Perez Cuapio… Anzi non dice i nomi. Dice nomignoli. Riccò lo chiama «il Cobra», Piepoli lo chiama «il Trullo volante». Robe da matti. E ce ne sono a iosa, di questi nometti. C'è il Delfino di Bibione, che è Pellizotti; lo Squalo dello Stretto, Vincenzo Nibali; il Killer, Danilo Di Luca; il Falco, Savoldelli; il Principino, Cunego, il campione del mondo Bettini è «il Grillo» e avanti così. Tanto che anche a Schleck – che è nato domani - hanno affibbiato il nomignolo: Bambù. Per l'altezza e l'eleganza in corsa, hanno detto. Mi chiedo: è elegante, il bambù? Bah…
Al lago di Misurina giro a sinistra e salgo verso le Tre cime di Lavaredo. Confesso: quando vedo salite del genere mi vien voglia di prender su una bici e partire, provare a sentire la fatica che si fa ad arrivare su. Ma provare anche la soddisfazione che ti riempie quando in effetti arrivi in cima. La cima di una vetta è qualche cosa di mistico. Avvicina agli dei. Anzi, a voler ben guardare è la casa degli dei. Non abitavano l'Olimpo, gli antichi dei greci? E il Fukuyama, quelli giapponesi? Basterebbe questo per aver voglia di salire. Ma stavolta, per arrivare al traguardo della tappa, tiro il collo alla mia C2 e devo mettere spesso la prima. E poi c'è pure un tempo da lupi. Ecco, adesso proprio non invidio quelle migliaia di ciclisti che stanno salendo per godersi in pace l'arrivo.
Torniamo alla gara.
La salita fa male. Al mattino, prima della partenza, l'ex corridore oggi cronista tecnico Davide Cassani mi aveva assicurato che questo tempaccio era un'ulteriore difficoltà per i ciclisti: «In discesa gli atleti rischiano di più, in salita col freddo usano diverse energie anche per scaldarsi». E infatti. Le energie sono centellinate checché ne pensi Perez Cuapio che, per non far scordare al pubblico il suo volto, affiancato durante la gara da un ormai famoso tifoso vestito da diavolo, lui, il mitico dentone, che ti combina? Gli prende la forca e la tiene per qualche metro. Telespettatori e telecronisti se la ridono di gusto, ma lui alla fine mollerà la fuga in cui era impegnato, cotto come un pero. Magari con quelle poche energie in più...
Mazzoleni frattanto va su come una moto, a qualche chilometro dall'arrivo era addirittura maglia rosa. Non stava scherzando, prima della partenza, quando diceva di non voler usare il rapporto più facile. «È una bellissima sorpresa», fa mentre lo vede salire il Ct della nazionale Franco Ballerini.
Delusi i tifosi di Marzio Bruseghin, arrivati da Vittorio Veneto.
A essere contenti, viceversa, quelli di Riccò, che esultano ogni vola che si mette sui pedali: «Era nella nostra squadra, da dilettante, la Grassi. Quella di Pantani». Sono arrivati da un giorno dalla Toscana, hanno dormito in tenda e - sapendo come è andata a finire – hanno fatto bene.
Nel parossismo di cronisti d'assalto e inservienti di difesa prossimo al traguardo, si guarda lo schermo gigante che manda le immagini. Sull'ultima salita, quella delle Tre cime, Riccò attacca, Di Luca si riprende la maglia rosa che virtualmente gli era stata sottratta, Simoni non tiene del tutto ma supera Cunego in gara e in classifica. E anche il Bambù (Schleck) perde qualcosa. Già, perché in questa cornice inquietante e magica delle Tre cime di Lavaredo, oggi tripudio di auto, moto, bici, camion, camper, elicotteri, cavi elettrici, discussioni, grida, c'è anche la gara, altroché. Che per la cronaca l'ha vinta Riccò. E ha detto: «È la più bella giornata della mia vita». Come fai a non credergli?
Maurilio Barozzi
l'Adige 28 maggio 2007
L’ARTICOLO
Pubblicato a pagina 26 con il titolo “I colori del Giro da Trento alle Tre Cime” e l’indicazione “dall’inviato Maurilio Barozzi” sul quotidiano l’Adige del 28 maggio 2007.