Maurilio Barozzi
Jorge Ben canta l’India del Taj Mahal
martedì 18 giugno 2013
MUMBAY - C'è un filo rosso che lega l'India al mio adorato Brasile. Un filo che va oltre il fatto che entrambi siano considerati 'Paesi emergenti', dove però povertà e emarginazione dilagano. Che va oltre il fatto che entrambi siano Paesi maschilisti ma dove una delle persone più potenti è una donna – Sonia Gandhi – in India; mentre è donna la prima ministra – Dilma Rousseff – in Brasile. Un filo che va oltre le distanze siderali che si frappongono tra città e città, anche se sarebbe più preciso chiamarle megalopoli. Che va oltre una spiritualità esibita a proprio modo in entrambi i Paesi ad ogni occasione.
Il filo rosso che mi ha trascinato in India è una canzone brasiliana che parla del suo monumento icona e che – nella sua versione granagliata e probabilmente banalizzata – tutto il mondo conosce per il capodanno. Tale canzone, nella sua semplicità che trasmette allegria contagiosa, parla di un principe e una principessa innamorati e parla del palazzo bianchissimo di Agra che le dà il titolo, Taj Mahal. E parla di bellezza. L'ha scritta Jorge Ben Jor in Brasile, l'ha cantata mezzo mondo, nasce da una vicenda indiana del 1600 e rotti.
È una storia di amore, di disperazione, di ricordo, di avversità, di consolazione e infine di pacificazione. Il protagonista è un imperatore, il Gran Mogol Shah Jahan, innamorato della moglie al punto da ingrigire in un sol giorno quando lei, la ‘princesa’ Mumtaz Mahal, morì partorendo. In sua memoria tra il 1632 e il 1653 fece costruire il Taj Mahal che così divenne il mausoleo del loro amore durato da quando lei era diciannovenne. Travolgente, per quelle latitudini e per quella cultura. Lei lo seguì devotamente ovunque andasse, anche in battaglia. Lui la ricambiò facendone la favorita del suo harem.
Quel palazzo spandeva affetto. Bianco, con l’alba che lo tinge di rosa illuminando di gentilezza le quattro torri e la cupola: qualcuno dice sia tuttora il più bell'edificio del mondo. Ma fu proprio appena terminato che il perfido figlio imprigionò il Mogol per prenderne il posto. E lo rinchiuse a Fort Agra, da dove Shah poteva solo vedere da lontano il simulacro della sua vita con Mumatz. Il Taj Mahal fa versare lacrime dagli occhi del sole e della luna, diceva struggendosi. Non si pacificò fino al 1666, quando morì e fu finalmente ricongiunto alla sua amata, nel sepolcro.
Sì, d'accordo, per raccontare un viaggio in India avrei probabilmente dovuto parlare del traffico assordante e asfissiante che assedia chiunque nelle chiassose metropoli del nord: Dehli, Jaipur, Agra e le altre. Toyota, Tata, Suzuki, camion, jeep stracariche con gli uomini appesi al cassone, biciclette, motorini con quattro persone a bordo, autobus… E naturalmente gli incidenti stradali. La fogna a cielo aperto coi topi per strada e i miserabili che abitano la città sacra Varanasi. I fedeli e i novelli sposi che scendono i gaht e sfidano le acque luride pur di immergersi e purificarsi nel sacro Gange, a pochi metri dalle spoglie di un cadavere che brucia sulla pira. O la magia che il fiume emana all’alba quando si riempie di foglie di banano che galleggiano trasportando fiammelle votive. Avrei dovuto descrivere i senzatetto che occupano i marciapiedi, chiedendo l’elemosina o semplicemente dormendoci. I camerieri del ristorante di Agra che sull'ombreggiata terrazza allontanavano le scimmie con la fionda. Il tassista Shiva che spiega il suo Paese con un sorriso agrodolce: «Qualsiasi cosa succeda, basta pagare, l’India è così». Il silenzio rosso mattone della città fantasma Fathepur Sikri e i giovanotti che cercavano refrigerio immergendosi nelle pozze d'acqua. Il palazzo dei venti con le sue mille finestre celanti storie di donne segrete, a Jaipur. O l’architettura dalla solenne aria british giustapposta alle baracche di Mumbay, e la luminosa casa di Gandhi. Ma avrei dovuto dire anche dell’odore marcio che emanano gli arti devastati e oscenamente esibiti dai lebbrosi che chiedono una moneta sulla passerella che porta alla moschea Haji Alì, sempre a Mumbay. Dei ragazzi che giocano a cricket nel parco. Degli uomini che defecano accucciati ai bordi della strada. Oppure delle donne che a mani nude plasmano dei dischi di sterco di vacca: una volta seccati diventeranno tegole o pavimento di casa. Ci sarebbe da dire delle grotte-tempio di Ellora e quelle di Ajanta, patrimonio dell’umanità. Dovrei allora dire anche del ristorante Tandoor di Aurangabad, dove i camerieri stanno tutti incollati alla tv ridendo per una specie di telefilm, a vederlo non gli daresti due soldi invece si mangia un delizioso tahli annaffiato da birra Kingfisher, ghiacciata of course. E degli alberghi a cinque stelle che ne valgono sette e di quelli che hanno le lenzuola sporche dal cliente precedente. Della bellezza da cartolina del mare di Goa, con l’acqua calda, le palme e il Tantra Shack bar, a forma di ombreggiate palafitte che riparano dal sole giaguaro. Oppure
del coloratissimo flea market del mercoledì, ad Anjuna, dove i fricchettoni europei espongono la loro merce mischiandosi ai venditori indiani. Delle vacche che percorrono l’autostrada in tutto il Paese e degli elefanti che occupano una corsia intera dalle parti di Amber. E di quelli che portano i turisti al Forte giallo ocra. Ci sarebbe da dire dei treni gremiti, dove gli uomini gridano e i bigliettai pur di non fare un tubo si fanno aiutare da dei mascalzoni che però chiedendo ai viaggiatori oboli non previsti; e della coppia di anziani turisti francesi che ha provato a protestare, ricevendo in cambio minacce. Del forte di Gwalior che domina la città con gli inserti blu che rompono la tinta ambrata. Della festa di Utran, quando i bambini fanno la felicità dei venditori di aquiloni e il cielo si riempie di fettucce svolazzanti. Della sacra Pushkar dai mille templi, dove è impensabile bere una birra o fumare un sigaro. Di quasi tutti i musei dove il biglietto per i turisti è venticinque volte più caro rispetto agli indiani.
Ci sarebbe da raccontare tutto questo e probabilmente molto, moltissimo altro. Invece ho preferito parlare della canzone di Jorge Ben. Che rievoca, con un misto di malinconia e allegria – tipicamente brasiliani – quella storia d'amore indiana. Anzi, dice testuale, “la più bella storia d'amore che mi abbiano raccontato”. Perché da lì, dalla storia che ha fatto nascere quel monumento, forse può tornare la spinta a rifare qualche cosa di meraviglioso, come è il Taj Mahal. Oggi, viceversa, il quotidiano della maggior parte degli abitanti indiani si chiama slum. Possibile che una volta sapevamo costruire cose così belle mentre oggi il vero lusso in India è avere il bagno in una abitazione?, si chiede l’indoamericano Suketu Mehta nel suo libro-reportage ‘Maximum City’. Solo il 40% delle abitazioni ha l'acqua potabile, più di 400 milioni di persone vive sotto la soglia di povertà, quasi altrettanti sono analfabeti e oggi i giornali sono inondati di terribili storie di stupri, racket, vendette, miseria. Ma questa è una storia diversa da quella della «potenza economica emergente».
maurilio barozzi
2013
L’ARTICOLO
Scritto tra Dehli, Agra, Varanasi, Mumbay, Aurangabad e Goa, nel 2013.